IL 1977, L’ULTIMA CONTESTAZIONE

 
Dal Capitolo Ventiquattresimo
Dopo i fatti di Via Indipendenza, io e Luca entrammo nel servizio d’ordine dei collettivi che occuparono La Sapienza. Noi eravamo gli indiani, fuori c’erano le giacche blu: quello era il gioco. Eravamo tutti tornati bambini e cominciammo a fare grandi feste. La notte dormivamo nei sacchi a pelo: Luca partecipava all’occupazione soprattutto per quello; gli piaceva fare l’accampamento, aveva la sindrome della giovane marmotta e anche quella del giovane porcello. Ripeteva che non saremmo potuti mancare a quell’occupazione, un grande evento storico. La Storia eravamo noi. E poi all’interno dell’Università c’erano tante ragazze emancipate e disponibili. Il problema erano i continui scontri con la polizia: spaventavano e allontanavano le compagne. Di quel passo avremmo fatto la Storia ma avremmo scopato poco. Ma era già qualcosa, diceva Luca, fare la Storia.
Non erano due stupidi, lo pensai, lo dissi.
<<Questo suo amico era capace di analisi molto lucide e ironiche. Eravate due persone intelligenti e presenti a se stesse. Prima di addormentavi nei sacchi a pelo, vi chiedevate il vero motivo del casino di quegli anni?>>
<<No!>>
Mi ridistesi sullo schienale della sdraio.
<<La vedo perplessa, Montano. Beh… immagini io e lei su due tavole da surf, lì poco al largo di Tor San Lorenzo. Comincia a montare da lontano una grande onda… noi andremo verso l’onda che aspettavamo, per cavalcarla, per esserci, sulla cresta, sul crinale, eretti sulle spume, a braccia aperte… andremo verso la grande onda per vivere un momento da poter ricordare per sempre… noi non siamo altro che il sogno di un’onda e il suo ricordo…>>
Bella immagine. Aveva ripreso a bere. Gli faceva bene.
 
Dal Capitolo Venticinquesimo
Scendemmo le bianche scale di Lettere. Tutti insieme, respirando nei caschi, danzando sui marmi, cominciando a urlare, sempre più forte, nei nostri caschi. C’era la piazza, la strada, e il mondo che già ballava in alto e in basso, ballava, la piazza, in alto e in basso, in alto e in basso, un casco e un bastone, un casco e un bastone. Avanti, andavamo avanti, volavamo, verso il nemico, battendo il tempo, battendo il tempo, urlando sotto la pioggia, sotto gocce di pioggia che si stampavano sulle visiere. Avanti, un passo dopo l’altro, un passo dopo l’altro, più veloci, respirando, sempre più veloci, sull’asfalto viscido del Piazzale, scansando le braccia, le grida, i gorghi di persone, nuotando, sbracciando nel nostro popolo fragile e sbandato, urlando, montando, caricando verso il fronte, verso la scogliera, verso l’impatto, per travolgere, per esplodere…
 

DIVAGAZIONI SUL 1977

 

Nell’Occidente del Terzo Millennio, nell’Italia di questi ultimi anni, terminati i grandi conflitti bellici e sociali, tra un talk show e l’altro, ci si potrebbe anche domandare se ci siano ancora le condizioni per la manifestazione e realizzazione delle istanze popolari, se sussista ancora la praticabilità di un controllo politico dal basso. Direi di no. I poteri costituiti ormai prescindono sempre di più dal c.d. controllo democratico che viene addirittura definito dalle Alte Cariche come un inconveniente, una possibilità di disturbo dei disegni tracciati da ineffabili Entità e Organizzazioni Superiori tutte rigorosamente non elette dal popolo: l’Europa, la BCE, i Trattati, le Commissioni, i Mercati, La Presidenza della Repubblica… .
Gli stessi appuntamenti elettorali ormai vengono sorvegliati come eventi potenzialmente eversivi. Dai palazzi del potere si invita la popolazione a scelte assennate, quelle indicate dall’ “opinione pubblica internazionale”, altro soggetto misterioso e incontestabile. Se si alza qualche voce di protesta, è subito criminalizzata come populista. Si cerca di manipolare continuamente i sistemi elettorali per sterilizzare con il cartello del bipolarismo o bipartitismo qualsiasi novità. Il proclamato Progetto di riduzione della Sovranità Nazionale, quindi della sovranità popolare, si inserisce in questa architettura concordata da un’èlite internazionale bancaria e finanziaria che ormai non fa mistero di se stessa avendo collocato i suoi uomini ai vertici di molte nazioni.
Senza addentrarmi nel complesso scenario attuale, ne traggo uno spunto, una sensazione che fu anche uno slogan del 1977, un’espressione gridata, quasi un disperato flusso di coscienza che ci riporta alla fine degli anni Settanta: “non contiamo più nulla, e allora la rivoluzione è adesso, prendiamoci le cose, i nostri diritti, i nostri spazi, la nostra vita!”.

Il Sessantotto era stato un movimento di contestazione generazionale fatto soprattutto da ragazzi in giacca e cravatta e libro sotto il braccio. Figli della buona borghesia con forte carica ideologica marxista accompagnata anche da istanze “beat generation” di libertà e affrancamento dai veti bigotti ancora imperanti nella società del dopoguerra. Era un movimento che si proclamava rivoluzionario, ma era sostanzialmente riformista, modernizzante, pacifico: si produceva in manifestazioni, occupazioni, sit in, pratiche di resistenza passiva. La c.d. Battaglia di Valle Giulia del marzo 1968 fu una reazione alla forte repressione poliziesca (“non siamo più scappati” scrissero gli studenti). L’idea di una rivolta possibile, probabile, prefigurava in qualche modo nuovi assetti istituzionali così come evocato dallo slogan “la fantasia al potere!”. Questo progetto, il faro ottimista di una prossima rivoluzione venne meno nel corso degli anni successivi che videro nell’ambito della Nuova Sinistra il moltiplicarsi delle formazioni extraparlamentari operaiste sempre più settoriali, differenziate, aggressive nei proclami e nelle azioni.

L’idea e l’attesa della rivoluzione marxista, o qualcosa di simile, sfumò definitivamente nel 1976 quando il PCI, dopo aver mancato di poco il sorpasso elettorale sulla DC, formò con essa il c.d. Governo di Unità Nazionale, detto anche Governo del Compromesso Storico, dell’Astensione o Governo dei Sacrifici. Il PCI di Berlinguer e la CGIL di Lama, con “alto senso di responsabilità” si facevano carico di “garantire la giustizia e la pace sociale in tempo di profonda crisi economica e a fronte dei grandi sacrifici richiesti anche a giovani e lavoratori”. Parole e scenari che ci ricordano qualcosa dell’oggi. Molti giovani, che nel corso di quegli anni avevano vissuto in massa un, più o meno vago, immaginario rivoluzionario comunista, si sentirono circondati dal sistema capitalista che si “ristrutturava” attraverso la maggiore produttività e l’abbassamento dei salari e grazie alla sponda socialdemocratica costituita dal PCI. All’inizio del 1977 la riforma Malfatti sulla Pubblica Istruzione scatenò le prime occupazioni studentesche universitarie e durissimi scontri con le forze dell’ordine.

Quello che caratterizza il movimento del 1977, a differenza del 1968, è l’esplicita vocazione violenta. La violenza come strumento di lotta politica e sociale, come elemento di appartenenza e identificazione. I nuovi Circoli del Proletariato Giovanile poi nuclei di Autonomia Operaia dispiegano la loro “azione diretta” anche per “riappropriarsi del valore d’uso delle merci”. La soddisfazione delle necessità e dei desideri diviene atto politico. E’ il “comunismo qui e ora” che prescinde dalla progettualità politica e dalla costruzione di più complesse architetture ideologiche, forse perché si sente che la Grande Rivoluzione non ci sarà più. Bisogna considerare che nelle agitazioni e pulsioni del 1977 sono coinvolti anche i settori emarginati della società che non possono accedere ai beni di consumo. E’ il periodo delle “spese proletarie” che possono diventare rapine, delle occupazioni di case, delle “autoriduzioni dei biglietti per i concerti musicali spesso oggetto di scontri, assalti e bombe molotov. Oggi può sembrare incredibile, ma per diversi anni in Italia fu impossibile organizzare grandi concerti a pagamento. Mentre il 1968 era stato, soprattutto all’inizio, un “gioioso” manifesto culturale e politico, il 1977 è la deflagrazione violenta di una rabbia, di una frustrazione per una mancata rivoluzione, un disagio che fu rappresentato, enfatizzato e poi tragicamente anestetizzato anche dalla diffusione dell’eroina.

I protagonisti coinvolti nel movimento del 1977 sono ben diversi da quelli di nove anni prima. Pur partendo ancora una volta da una protesta studentesca, il movimento prende forma nell’avvenuta scolarizzazione e istruzione di massa. Gli universitari ormai non appartengono soltanto alle classi agiate, ma provengono anche dal c.d. proletariato e da settori marginali della società con scarse possibilità di inserimento sociale e lavorativo qualificato. Il movimento dei non garantiti, dinanzi allo spettacolo della politica dei sacrifici avallata dal PCI e dal sindacato che “si fanno Stato” per far pagare la crisi ai ceti popolari, cerca furiosamente una via d’uscita. Inoltre, a dispetto del nome, gli appartenenti all’Autonomia Operaia e ancor più i c.d. indiani metropolitani sono spesso studenti appartenenti alla piccola borghesia con tratti e inclinazioni alternative e bohemien che mal si conciliano con lo stile e le istanze della classe operaia vista dai giovani contestatori addirittura come privilegiata: posto fisso e tutele garantite e difese dal PCI e dal sindacato. Questa contraddizione sociale, generazionale e antropologica tra studenti e operai si evidenzia plasticamente nella famosa cacciata del sindacalista Sergio Lama dall’Università di Roma.

Nel 1977, mentalità e condotte aggressive, sono rilanciate anche sul piano ideologico dalle tesi del Prof. Antonio Negri che, quasi facendo un’apologia politica delle condotte devianti, auspica la destrutturazione della società capitalista attraverso il rifiuto del lavoro, il sabotaggio, l’azione diretta e lo sciopero: strumenti che vengono riuniti sotto il nome di “autovalorizzazione proletaria”.

Dopo sei mesi di scontri e violenze nelle grandi città, Roma in particolare, accompagnate dalla risposta repressiva e spesso indiscriminata del Governo, dopo le grandi occupazioni e le affollate e caotiche assemblee studentesche fisicamente dominate dalla componente militante dell’Autonomia Operaia, il Movimento studentesco fissa a Bologna per fine settembre un grande “Convegno contro la Repressione”. Appuntamento che si svolgerà senza le temute violenze, risolvendosi in una enorme, colorata e folcloristica rappresentazione teatrale per strada, molto povera di idee e analisi, e che segnerà la fine del breve ma intenso capitolo del Movimento del 1977 in Italia. A Roma, dove le scosse erano state più forti e profonde e dove le opposte formazioni giovanili di estrema destra erano consistenti e radicate, le violenze finiranno soltanto cinque anni dopo, nei primi anni Ottanta.

I ragazzi del 1977 presero strade diverse. Alcuni dei più vicini agli ambienti dell’Autonomia Operaia entrarono nella clandestinità della lotta armata che ebbe un apice proprio negli anni successivi. Molti furono trascinati via dalla tossicodipendenza da eroina che divenne un fenomeno di massa a cavallo tra i due decenni. La componente più creativa, situazionista e meno politicizzata (sulla scia degli indiani metropolitani e simili) ebbe modo di esprimere il suo estro eccentrico, ironico e provocatorio e la ritroviamo nelle produzioni artistiche degli ultimi anni Settanta e primi anni Ottanta. Altri ancora si immisero nel nuovo corso, cavalcarono il riflusso, si immisero nella nuova società degli yuppies, delle tv commerciali, dell’edonismo reaganiano conservando il loro spirito disilluso, critico e ironico.

Ironia, scetticismo e disillusione che sono rimasti un po’ in tutti noi, in dormiente attesa di un nuovo 1977.