| Scendemmo le bianche scale di Lettere. Tutti
insieme, respirando nei caschi, danzando sui marmi, cominciando a
urlare, sempre più forte, nei nostri caschi. C’era la piazza, la strada,
e il mondo che già ballava in alto e in basso, ballava, la piazza, in
alto e in basso, in alto e in basso, un casco e un bastone, un casco e
un bastone. Avanti, andavamo avanti, volavamo, verso il nemico, battendo
il tempo, battendo il tempo, urlando sotto la pioggia, sotto gocce di
pioggia che si stampavano sulle visiere. Avanti, un passo dopo l’altro,
un passo dopo l’altro, più veloci, respirando, sempre più veloci,
sull’asfalto viscido del Piazzale, scansando le braccia, le grida, i
gorghi di persone, nuotando, sbracciando nel nostro popolo fragile e
sbandato, urlando, montando, caricando verso il fronte, verso la
scogliera, verso l’impatto, per travolgere, per esplodere… |
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Nell’Occidente del Terzo
Millennio, nell’Italia di questi ultimi anni, terminati i grandi
conflitti bellici e sociali, tra un talk show e l’altro, ci si potrebbe
anche domandare se ci siano ancora le condizioni per la manifestazione e
realizzazione delle istanze popolari, se sussista ancora la
praticabilità di un controllo politico dal basso. Direi di no. I poteri
costituiti ormai prescindono sempre di più dal c.d. controllo
democratico che viene addirittura definito dalle Alte Cariche come un
inconveniente, una possibilità di disturbo dei disegni tracciati da
ineffabili Entità e Organizzazioni Superiori tutte rigorosamente non
elette dal popolo: l’Europa, la BCE, i Trattati, le Commissioni, i
Mercati, La Presidenza della Repubblica… .
Gli stessi appuntamenti elettorali ormai vengono sorvegliati come eventi
potenzialmente eversivi. Dai palazzi del potere si invita la popolazione
a scelte assennate, quelle indicate dall’ “opinione pubblica
internazionale”, altro soggetto misterioso e incontestabile. Se si alza
qualche voce di protesta, è subito criminalizzata come populista. Si
cerca di manipolare continuamente i sistemi elettorali per sterilizzare
con il cartello del bipolarismo o bipartitismo qualsiasi novità. Il
proclamato Progetto di riduzione della Sovranità Nazionale, quindi della
sovranità popolare, si inserisce in questa architettura concordata da
un’èlite internazionale bancaria e finanziaria che ormai non fa mistero
di se stessa avendo collocato i suoi uomini ai vertici di molte nazioni.
Senza addentrarmi nel complesso scenario attuale, ne traggo uno spunto,
una sensazione che fu anche uno slogan del 1977, un’espressione gridata,
quasi un disperato flusso di coscienza che ci riporta alla fine degli
anni Settanta: “non contiamo più nulla, e allora la rivoluzione è
adesso, prendiamoci le cose, i nostri diritti, i nostri spazi, la nostra
vita!”.
Il Sessantotto era stato un movimento di contestazione generazionale
fatto soprattutto da ragazzi in giacca e cravatta e libro sotto il
braccio. Figli della buona borghesia con forte carica ideologica
marxista accompagnata anche da istanze “beat generation” di libertà e
affrancamento dai veti bigotti ancora imperanti nella società del
dopoguerra. Era un movimento che si proclamava rivoluzionario, ma era
sostanzialmente riformista, modernizzante, pacifico: si produceva in
manifestazioni, occupazioni, sit in, pratiche di resistenza passiva. La
c.d. Battaglia di Valle Giulia del marzo 1968 fu una reazione alla forte
repressione poliziesca (“non siamo più scappati” scrissero gli
studenti). L’idea di una rivolta possibile, probabile, prefigurava in
qualche modo nuovi assetti istituzionali così come evocato dallo slogan
“la fantasia al potere!”. Questo progetto, il faro ottimista di una
prossima rivoluzione venne meno nel corso degli anni successivi che
videro nell’ambito della Nuova Sinistra il moltiplicarsi delle
formazioni extraparlamentari operaiste sempre più settoriali,
differenziate, aggressive nei proclami e nelle azioni.
L’idea e l’attesa della rivoluzione marxista, o qualcosa di simile,
sfumò definitivamente nel 1976 quando il PCI, dopo aver mancato di poco
il sorpasso elettorale sulla DC, formò con essa il c.d. Governo di Unità
Nazionale, detto anche Governo del Compromesso Storico, dell’Astensione
o Governo dei Sacrifici. Il PCI di Berlinguer e la CGIL di Lama, con
“alto senso di responsabilità” si facevano carico di “garantire la
giustizia e la pace sociale in tempo di profonda crisi economica e a
fronte dei grandi sacrifici richiesti anche a giovani e lavoratori”.
Parole e scenari che ci ricordano qualcosa dell’oggi. Molti giovani, che
nel corso di quegli anni avevano vissuto in massa un, più o meno vago,
immaginario rivoluzionario comunista, si sentirono circondati dal
sistema capitalista che si “ristrutturava” attraverso la maggiore
produttività e l’abbassamento dei salari e grazie alla sponda
socialdemocratica costituita dal PCI. All’inizio del 1977 la riforma
Malfatti sulla Pubblica Istruzione scatenò le prime occupazioni
studentesche universitarie e durissimi scontri con le forze dell’ordine.
Quello che caratterizza il movimento del 1977, a differenza del 1968, è
l’esplicita vocazione violenta. La violenza come strumento di lotta
politica e sociale, come elemento di appartenenza e identificazione. I
nuovi Circoli del Proletariato Giovanile poi nuclei di Autonomia Operaia
dispiegano la loro “azione diretta” anche per “riappropriarsi del valore
d’uso delle merci”. La soddisfazione delle necessità e dei desideri
diviene atto politico. E’ il “comunismo qui e ora” che prescinde dalla
progettualità politica e dalla costruzione di più complesse architetture
ideologiche, forse perché si sente che la Grande Rivoluzione non ci sarà
più. Bisogna considerare che nelle agitazioni e pulsioni del 1977 sono
coinvolti anche i settori emarginati della società che non possono
accedere ai beni di consumo. E’ il periodo delle “spese proletarie” che
possono diventare rapine, delle occupazioni di case, delle
“autoriduzioni dei biglietti per i concerti musicali spesso oggetto di
scontri, assalti e bombe molotov. Oggi può sembrare incredibile, ma per
diversi anni in Italia fu impossibile organizzare grandi concerti a
pagamento. Mentre il 1968 era stato, soprattutto all’inizio, un
“gioioso” manifesto culturale e politico, il 1977 è la deflagrazione
violenta di una rabbia, di una frustrazione per una mancata rivoluzione,
un disagio che fu rappresentato, enfatizzato e poi tragicamente
anestetizzato anche dalla diffusione dell’eroina.
I protagonisti coinvolti nel movimento del 1977 sono ben diversi da
quelli di nove anni prima. Pur partendo ancora una volta da una protesta
studentesca, il movimento prende forma nell’avvenuta scolarizzazione e
istruzione di massa. Gli universitari ormai non appartengono soltanto
alle classi agiate, ma provengono anche dal c.d. proletariato e da
settori marginali della società con scarse possibilità di inserimento
sociale e lavorativo qualificato. Il movimento dei non garantiti,
dinanzi allo spettacolo della politica dei sacrifici avallata dal PCI e
dal sindacato che “si fanno Stato” per far pagare la crisi ai ceti
popolari, cerca furiosamente una via d’uscita. Inoltre, a dispetto del
nome, gli appartenenti all’Autonomia Operaia e ancor più i c.d. indiani
metropolitani sono spesso studenti appartenenti alla piccola borghesia
con tratti e inclinazioni alternative e bohemien che mal si conciliano
con lo stile e le istanze della classe operaia vista dai giovani
contestatori addirittura come privilegiata: posto fisso e tutele
garantite e difese dal PCI e dal sindacato. Questa contraddizione
sociale, generazionale e antropologica tra studenti e operai si
evidenzia plasticamente nella famosa cacciata del sindacalista Sergio
Lama dall’Università di Roma.
Nel 1977, mentalità e condotte aggressive, sono rilanciate anche sul
piano ideologico dalle tesi del Prof. Antonio Negri che, quasi facendo
un’apologia politica delle condotte devianti, auspica la
destrutturazione della società capitalista attraverso il rifiuto del
lavoro, il sabotaggio, l’azione diretta e lo sciopero: strumenti che
vengono riuniti sotto il nome di “autovalorizzazione proletaria”.
Dopo sei mesi di scontri e violenze nelle grandi città, Roma in
particolare, accompagnate dalla risposta repressiva e spesso
indiscriminata del Governo, dopo le grandi occupazioni e le affollate e
caotiche assemblee studentesche fisicamente dominate dalla componente
militante dell’Autonomia Operaia, il Movimento studentesco fissa a
Bologna per fine settembre un grande “Convegno contro la Repressione”.
Appuntamento che si svolgerà senza le temute violenze, risolvendosi in
una enorme, colorata e folcloristica rappresentazione teatrale per
strada, molto povera di idee e analisi, e che segnerà la fine del breve
ma intenso capitolo del Movimento del 1977 in Italia. A Roma, dove le
scosse erano state più forti e profonde e dove le opposte formazioni
giovanili di estrema destra erano consistenti e radicate, le violenze
finiranno soltanto cinque anni dopo, nei primi anni Ottanta.
I ragazzi del 1977 presero strade diverse. Alcuni dei più vicini agli
ambienti dell’Autonomia Operaia entrarono nella clandestinità della
lotta armata che ebbe un apice proprio negli anni successivi. Molti
furono trascinati via dalla tossicodipendenza da eroina che divenne un
fenomeno di massa a cavallo tra i due decenni. La componente più
creativa, situazionista e meno politicizzata (sulla scia degli indiani
metropolitani e simili) ebbe modo di esprimere il suo estro eccentrico,
ironico e provocatorio e la ritroviamo nelle produzioni artistiche degli
ultimi anni Settanta e primi anni Ottanta. Altri ancora si immisero nel
nuovo corso, cavalcarono il riflusso, si immisero nella nuova società
degli yuppies, delle tv commerciali, dell’edonismo reaganiano
conservando il loro spirito disilluso, critico e ironico.
Ironia, scetticismo e disillusione che sono rimasti un po’ in tutti noi,
in dormiente attesa di un nuovo 1977.
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